Di Michela Troian
L’esperienza della vita non avviene attraverso l’intelletto ma attraverso quello che possiamo dire intelletto “incorporato” che abita il tempo e lo spazio degli altri corpi, non vale come “io penso”, ma come “io spingo”, “io trascino”, “io sollevo” le cose del mondo. Il collegamento tra intelletto e mondo è il corpo, senza il quale non c’è né intelletto, né anima che possa intendere qualcosa del mondo.
Il corpo non è sollecitato a comunicare con l’esterno ma bensì nasce già aperto al mondo. La presenza corporea è fondamentale, essendo lo spessore che ha l’Io per mostrarsi all’altro, e l’altro per apparire a me. Senza la presenza del corpo non potremmo essere uno per l’altro o uno con l’altro, non avendo neanche la possibilità, attraverso il nostro sguardo, di essere uomini per gli uomini o uomini tra gli uomini. Unico tra tanti.
Interagisco con me interagendo con il mondo.
Tutto ciò comincia dal contatto.
Dalla primissima infanzia viene sperimentata l’empatia, l’intimità, la sintonizzazione e appunto il contatto; tutto questo nell’ambiente – mondo. Ciò da struttura all’identità della persona e definisce il mondo proprio come senso di appartenenza ed esistenza. Si definisce l’essere-al-mondo.
Il corpo diviene luogo di presenza. Il contatto con questa esteriorità permette di immergersi nel mondo e di costruire relazioni con esso, permette di avere scambi con oggetti e soggetti.
Attraverso questa necessità di apertura ci troviamo costantemente esposti, l’esposizione di noi stessi è una delle caratteristiche della vita che ci fa provare quando siamo esseri indifesi e vulnerabili nella nostra nudità, essendo connessi ed esposti a tutti e a tutto non possiamo sottrarci alla possibilità di soffrire, di ammalarci, e per natura biologica, perire e morire.
Questo è ciò che rende la donna e l’uomo esseri unici ma finiti.
Unica tra tante è dicerto l’artista Gina Pane che è stata una tra le prime e più importanti esploratrici dei limiti del corpo, con cui ha fatto grande contestazione sociale stravolgendo totalmente la stereotipata visione del corpo femminile.
Gina Pane inizia a lavorare con il corpo dal 1968, delle sue azioni restano le riprese, foto e film, realizzate dalla fotografa Francoise Masson.
“Escalade” 1971 è la prima azione in cui vediamo l’artista ferire il suo corpo, arrivando ad esplorare spesso dei limiti estremi e momenti di pericolo creando una sorta di shock all’osservatore che, non sentendosi più al sicuro, restava sospeso nelle sue sensazioni.
Gina Pane, con le sue Azioni, ci vuol far capire che il corpo non rimane rilegato nella sola rappresentazione ma nella possibilità di una continua trasformazione.
Sul palmo della mano, sul lobo morbido dell’orecchio o sulle dita del piede, un deciso colpo di lametta, sferrato con tensione, provoca una ferita. La ferita.
Il gocciolamento, la macchia sulla camicia bianca.
L’artista adopera il suo corpo per ferirlo, trafiggerlo, oltrepassarlo. Nel suo gesto estremo, dette blessure, sono solo ferite, mai mutilazioni. Il suo sangue effluisce con leggerezza sul suo corpo, non arriva con violenza. Rivoli non gorghi. Eppure la ferita e il suo sangue sono vissuti come elementi accusatori e infine liberatori.
“la ferita è un segno dello stato di estrema fragilità del corpo, un segno del dolore, un segno che evidenzia la situazione esterna di aggressione, di violenza cui siamo esposti. (…)” David Le Breton
In “Azione sentimentale” del 1973, alla galleria Diaframma di Milano, dopo aver infilato nel braccio sinistro le spine di una rosa, la Pane pratica un’incisione sul palmo della mano che simula la forma della rosa. Così come nella performance “Le lait chaud”, del 1972 alla galleria Boutan di Parigi, nella terza fase dell’azione, l’artista si solca il viso con una lametta. È una sorta di patologia del dolore in cui la ferita, cioè l’oggetto catartico dell’azione, diviene momento di contestazione sociale. Senza teatralizzazione, il piccolo e silenzioso ferirsi al viso divenne un modo attraverso cui la bellezza femminile riattiva una sua identità, un momento di sottrazione allo stereotipo classico, all’aspettativa culturale occidentale.
Il gesto di sofferenza è un gesto di cancellazione, un segno di opposizione allo schema sociale vigente.
Questo sfidare il corpo penetrandolo, esprime il desiderio di attraversarlo nella sua totalità, ma anche di approfondire il rapporto con esso e di violare i tabù legati al sangue e alla violenza fisica. L’esterno da cui salvarsi, i ricordi da cui liberarsi attraverso il trauma emozionale di una lama che affonda nella carne.
Mostrare fino in fondo le proprie debolezze fisiche e psichiche sono l’unica strada che può permettere a molti di intervenire sulla loro vita.
Quest’artista, infatti, presenta sempre situazioni antecedenti, legate alla memoria; i ricordi che sono tradotti nella pièce. Attraverso questa, l’autrice si libera di cariche di affetto bloccato in maniera tanto intensa da rasentare il patogeno. Il grado di eccitazione arriva fino al limite del trauma. Si hanno scariche emozionali mediante le quali ci si chiede se l’autrice si libera del peso dell’evento traumatico o lo sistematizza per tesaurizzarle.
Il tema, è spesso, quello di riempire un vuoto insostenibile, un vuoto-lutto, la perdita dell’oggetto amato. Il corpo, nelle azioni della Pane soprattutto, è causa della sensazione, non è solo strumento d’azione ma contribuisce alla vita della coscienza e della memoria in un parallelismo psicofisico di processi che prendono significato e rilievo solo nella loro connessione.
Con quest’artista percorriamo un viaggio nella memoria personale e memoria collettiva, dove si specchiano le imposizioni sociali e i ricordi del passato, infatti, forte il suo legame con esso.
Il dolore è come anestetico alla memoria.
by Michela Troian
The experience of life does not take place through the intellect but through what we can say is the “embedded” intellect that inhabits the time and space of other bodies, it is not valid as “I think”, but as “I push”, “I drag “,” I raise” the things of the world. The connection between the intellect and the world is the body, without it there is neither intellect nor soul that can understand anything of the world.
The body is not solicited to communicate with the outside but is born already open to the world. The bodily presence is fundamental, being the thickness that the ego has to show itself to the other, and the other to appear to me. Without the presence of the body we could not be one for the other or one with the other, not even having the possibility, through our gaze, to be men for men or men among men. Unique among many.
I interact with myself by interacting with the world.
All this begins with contact. From the earliest childhood, empathy, intimacy, attunement and contact are experienced; in the environment – world. This gives structure to the identity of the person and defines the world precisely as a sense of belonging and existence. Being-in-the-world is defined.
The body becomes a place of presence. Contact with this exterior allows you to immerse yourself in the world and build relationships with it, allows you to have exchanges with objects and subjects.
Through this need for openness we find ourselves constantly exposed, the exposure of ourselves is one of the characteristics of life that makes us feel when we are defenseless and vulnerable beings in our nakedness, being connected and exposed to everyone and everything we cannot escape the possibility to suffer, to get sick, and by biological nature, to perish and die. This is what makes women and men unique but finite beings.
Unique among many is the artist Gina Pane who was one of the first and most important explorers of the limits of the body, with whom she made a great social protest, totally distorting the stereotypical vision of the female body.
Gina Pane starts working with the body since 1968, of her actions remain the filming, photos and films, made by photographer Francoise Masson. “Escalade” 1971 is the first action in which we see the artist injure his body, often going so far as to explore extreme limits and moments of danger, creating a sort of shock to the observer who, no longer feeling safe, remained suspended in his sensations. Gina Pane, with her Actions, wants us to understand that the body does not remain bound only in representation but in the possibility of a continuous transformation.
On the palm of the hand, on the soft ear lobe or on the toes, a sharp blow of the razor blade, delivered with tension, causes a wound. The wound. The dripping, the stain on the white shirt.
The artist uses her body to wound it, pierce it, go beyond it. In her extreme gesture, called blessure, they are only wounds, never mutilations. Her blood flows lightly on her body, it does not come with violence. Rivoli not eddies. Yet her wound and her blood are experienced as accusing and ultimately liberating elements. “The wound is a sign of the extremely fragile state of the body, a sign of pain, a sign that highlights the external situation of aggression, of violence to which we are exposed. (…) ”David Le Breton In 1973’s “Sentimental Action”, at the Diaframma gallery in Milan, after inserting the thorns of a rose in her left arm, Pane makes an engraving on the palm of her hand that simulates the shape of a rose. As in the 1972 performance “Le lait chaud” at the Boutan gallery in Paris, in the third phase of the action, the artist furrows his face with a razor blade. It is a kind of pain pathology in which the wound, that is the cathartic object of the action, becomes a moment of social contestation. Without theatricalization, the small and silent wound in her face became a way through which female beauty reactivates an identity of her, a moment of subtraction from the classical stereotype, from the Western cultural expectation.
The gesture of suffering is a gesture of cancellation, a sign of opposition to the current social scheme. This challenging the body by penetrating it expresses the desire to cross it in its entirety, but also to deepen the relationship with it and to violate the taboos linked to blood and physical violence. The outside from which to save oneself, the memories from which to free oneself through the emotional trauma of a blade that sinks into the flesh. Showing one’s physical and mental weaknesses to the full is the only way that can allow many to intervene in their lives.
This artist, in fact, always presents antecedent situations, linked to memory; the memories that are translated into the play. Through this, the author gets rid of charges of blocked affection so intensely that it borders on the pathogen. The degree of arousal reaches the limit of trauma. There are emotional discharges through which one wonders if the author gets rid of the burden of the traumatic event or systematizes it to hoard them.
The theme is often that of filling an unsustainable void, a void-mourning, the loss of the loved object. The body, especially in the actions of Bread, is the cause of sensation, it is not only an instrument of action but contributes to the life of consciousness and memory in a psychophysical parallelism of processes that take on meaning and importance only in their connection. With this artist we go on a journey into personal memory and collective memory, where social impositions and memories of the past are reflected, in fact, her strong bond with it is reflected. Pain is like a memory anesthetic.
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